La vita familiare, il forte credo religioso vissuto fra le mura domestiche, la chiamata precoce di Laura alla vita in unione a Cristo Gesù, l’anelito alla missionarietà ed il fremito mistico non possono che ricondurre alla figura di santa Teresa di Lisieux  (1873-1897), la monaca carmelitana e mistica francese divenuta nel 1997 dottore della Chiesa. Le parole di Laura e dunque il suo sentire spirituale richiamano lo stile umile, tenero, appassionato di Teresa, come dimostrano gli appunti che scrisse durante gli esercizi spirituali del 1877 nei quali si rivela lo spessore della sua anima: «Mio buon Gesù da questo momento vi consacro ogni momento del viver mio, ogni fatica, ogni cosa. Voglio d’ora innanzi operare, pensare, parlare, riposare, dormire […] ma tutto e solo come piace a voi e per amor vostro […] Fatemi la grazia che vi riceva sempre con nuovo fervore, grande fede , umiltà profondissima, Amor generoso»[1].

La sua fisionomia spirituale sarà sempre, come in santa Teresina, uguale a se stessa, pur nell’ascesi ininterrotta: unione con Dio, corresponsione alla grazia, ricerca del bene delle anime. In poche parole: essere tutta di Cristo.

Nel XIX secolo Milano era una viva città, in lenta crescita, con un tessuto produttivo ricco e articolato, una classe dirigente sensibile e curiosa, istituzioni formative di grande valore, con un’esperienza di amministrazione asburgica alle spalle di notevole livello per efficienza e concretezza. La città era in quel tempo uno straordinario laboratorio nel quale, in anticipo sul resto d’Italia, ci si confrontava con le sfide imposte dalla modernizzazione.

La protagonista assoluta era l’industria: ancor prima che nel profilo urbanistico le ciminiere sovrastassero i campanili, l’élite milanese avvertì prepotente l’esigenza di aggiornamento culturale, testimoniata dalla vivacità delle riviste e dell’editoria, dalla riforma dell’istruzione tecnica e dal continuo scambio di idee ed informazioni con le capitali dell’innovazione d’oltralpe e anche oltreoceano.

La città si stava rimodellando, cresceva, si ristrutturava, mutando le proprie gerarchie spaziali: alla città del lusso e dei commerci si contrapposero man mano i quartieri degradati della nuova periferia industriale. Una trasformazione carica di tensioni e di contraddizioni. Proprio in questo periodo si posero le premesse per lo sviluppo di movimenti culturali che si affermarono pienamente negli anni seguenti. In particolar modo si confermò la tendenza ad usare la letteratura per rappresentare la società nei suoi vari aspetti civili, politici e morali, spesso con intenti educativi e in forma realistica.

Milano non era più la capitale politica dell’Italia, ma stava acquistando quella condizione che le meritò il termine di «capitale morale» ed economica, frutto del più stringente svilupparsi dei fenomeni urbani e industriali maggiormente allineati con il resto d’Europa.

Nell’ambiente ecclesiale dell’Ottocento appariva emergente nel popolo dei fedeli la tendenza ad una più appropriata esperienza spirituale. Lo Spirito introduce il credente, dopo approfondita iniziazione ascetica virtuosa, a raccogliersi su Gesù Cristo: un’opera non limitata ad istruire il popolo di Dio sulla persona e l’opera di Gesù Cristo, ma a rieducarlo a vivere con lui e in lui; un cammino lento, esposto a deviazioni, scaglionato in tempi lunghi, realizzato sotto aspetti svariati.

Ma la fede semplice del popolo cristiano, capace di illuminare le realtà concrete e di dare forza nei problemi di ogni giorno, sentì il bisogno di nutrirsi anche attingendo ad un intenso “sistema devozionalistico”, “incentrato sul culto dei defunti, la devozione a sant’Antonio di Padova, a san Giuseppe…”[2]. Rimase centrale e continuò ad ampliarsi, anche attraverso tali forme di devozione, il culto del Cristo, con un’attenzione particolare al culto della Passione e Crocifissione, del Preziosissimo Sangue, della Via Crucis, del Sacro Cuore, di Gesù Eucaristico.

Mentre la teologia andava elaborando in quale grado di fede si dovessero accogliere determinate verità rivelate, il popolo cristiano raccoglieva la sua fede soprattutto su Gesù Cristo presente corpo-anima-divinità nell’Eucaristia. Da questa fede verso Gesù eucaristico germinò una diffusa prassi devozionale ecclesiale eucaristica: adorazione e comunione come sorgenti di grazie particolari. La devozione al Sacro Cuore ebbe un grande sviluppo, sia perché essa si proponeva come una risposta ai ‘mali del tempo’ causati dalla laicizzazione, come anche perché riassumeva il messaggio della redenzione, fino a quel momento rappresentato soltanto dal culto della Passione o dal Cristo della Pietà. L’immagine del Sacro Cuore veniva collocata in modo trionfale nelle Chiese, era segno per i fedeli della sede dell’amore e della sofferenza, espressione dell’amore che Dio ha per l’umanità; oppure, sanguinante e coronato di spine, il Cuore di Cristo divenne espressione della sofferenza inflitta a Dio dall’umanità e, quindi, richiedeva la riparazione.

A Milano, come sappiamo, abitava la famiglia Biffi, composta dal cavalier Francesco di 72 anni, dalle sorelle Clara di 83 e Caterina di 70. I Biffi erano conosciuti per le loro opere di beneficenza.

Nel 1865, come ogni anno era abituata fare, la famiglia Biffi trascorse i mesi estivi nella campagna brianzola di Sulbiate.

Prima di tornare a Milano, nella bella casa di corso Monforte 10 al primo piano, adiacente all’antica basilica di San Babila, i Biffi domandarono al parroco, don Ercole Riva, di portare con loro una ragazza del paese che potesse svolgere le funzioni di segretaria del cavalier Francesco e di dama di compagnia delle sue sorelle. Il parroco, in unità di accordi con i richiedenti, puntò  subito su Laura Baraggia e, convocata la giovane, le disse: «Senti, Laura, abbiamo fatto una cosa che riguarda te senza dirtelo, e tu ora ci devi obbedire per quanto non sia conforme ai tuoi desideri. Tu pensavi di andare in monastero, nevvero? Invece i signori Biffi ti chiesero per la loro famiglia e per stare sempre con loro e per riguardo alla tanta carità che fanno e per il tanto bene alla Chiesa, non abbiamo potuto dire di no e abbiamo loro promesso che ti avremmo condotta da loro a Milano».[3]

Obbedire significava per Laura seguire la volontà di Dio, ma nel cuore aveva lo schianto: «Ciò che ho provato in quel momento è impossibile descriverlo, solo Gesù che in quel momento mi sostenne, lo conosce. Non ho potuto proferire una parola, mi pareva che il mio cuore mi si spezzasse e le  mie ossa si slogassero»[4].

Sembrava frantumarsi il sogno di divenire sposa del suo Gesù. Accettò, senza fiatare, il sacrificio, tutto per amore del Signore. La madre le domandò se era contenta di partire e lei così rispose: «Sì, mamma sono contenta perché siete contenti voi e il signor parroco che mi tenete il posto del Signore, dunque è contento anche il Signore»[5].

Il 17 gennaio 1866 accompagnata dalla madre e dal fratello Francesco, Laura raggiunse Milano e nella ricca dimora dei signori Biffi rimase dal 1866 al 1880: quattordici anni di profonda maturazione. Drastico fu il passaggio dalla vita semplice e provinciale di Sulbiate Superiore a quella movimentata della grande Milano, già proiettata a divenire polo industriale e di commercio e ad accogliere il flusso migratorio proveniente dalle campagne lombarde: i contadini, colpiti dalla crisi del baco da seta degli anni Cinquanta/Sessanta e dalla caduta del prezzo del grano, vedevano la città come meta lavorativa con i nuovi opifici richiedenti mano d’opera.

In casa Biffi Laura venne accolta come una vera e propria figlia e si trovò subito circondata da affetto e attenzioni. Una positiva influenza ebbero queste persone nella formazione della giovane ed il ruolo più importante lo assunse il cavalier Francesco che Laura imparò ad amare come un padre «e lo veneravo e lo servivo come il padre dei poveri perché era di una carità grandissima»[6]. La carità evangelica del cavalier Biffi incise fortemente nell’animo di Laura, molto attenta ad accogliere le miserie altrui.

Ben quattordici anni trascorse Laura Baraggia a Milano e qui portò a compimento quello che definirà il suo «noviziato alla vita religiosa»[7].

In quegli anni, totalmente assorbita nella famiglia Biffi, Laura riuscì comunque a dedicare parte del suo tempo alla preghiera, alla parrocchia, alle conferenze religiose. Parallelamente le pesava però il dover seguire, nel vestiario, la moda delle giovani borghesi di allora e ciò le procurava forti tensioni interiori, tanto da aver necessità di confessarsi; il sacerdote le assicurò che non c’era alcun peccato nel pettinarsi e nel vestirsi alla moda. Ma l’inquietudine viveva in lei anche a causa dell’arredamento ricco della sua stanza. Allora decise di rinunciare a tutte le cose non indispensabili. Prese, per esempio, il tappeto e lo piegò, tolse dal letto il copriletto lussuoso, voltò lo specchio verso il muro e allontanò tutto ciò che era inutile.

Per due anni apprese le nozioni di contabilità. Molte ore della giornata le trascorreva nello studio del cavalier Francesco, intento ad amministrare i propri beni mentre Laura, come segretaria, scriveva numeri e svolgeva operazioni e in mezzo a numeri e lettere commerciali riusciva ugualmente a pensare a Gesù, come lei stessa riferisce con semplicità: «Quando scrivevo l’uno intendevo fare un atto di fede, il n. 2 di speranza, il n. 3 di carità, il n. 4 di dolore, il n. 5 di proposito, il n. 6 di lode, il n. 7 di adorazione, il n. 8 di amore, il n. 9 di riparazione, il n. 10 d’umiltà, ecc. 

Così anche quando scrivevo con le lettere dell’alfabeto. E questo mi aiutò moltissimo a tenermi sempre unita al mio caro Gesù anche in mezzo agli affari»[8]. Fu un vero e proprio patto che stabilì con il suo amato.

Fatta di conti, di lettere, di lettura della corrispondenza oppure di giornali e libri, la sua giornata si chiudeva alle ore 21 con il santo Rosario in famiglia, al quale partecipavano anche i domestici. Prendeva parte alla Messa quotidiana, così come facevano i Biffi ed i loro domestici; inoltre accompagnava i padroni nelle visite a conoscenti, amici e professionisti oppure nei loro viaggi. Tutto ciò le era molto gravoso. «Come componente della famiglia, la Serva di Dio era presente alle visite che, a loro volta, i Biffi ricevevano; si sforzava in quelle occasioni, che pur non avevano nulla di mondano, di mantenere un atteggiamento riservato, quasi schivo che non sempre venne capito dagli estranei»[9], infatti per evitare i normali ed abituali complimenti del mondo dovette soffrire parecchie umiliazioni, ingiurie, disprezzi, comparendo addirittura maleducata.

La camera di Laura era posizionata proprio di fronte alla chiesa di San Babila e, con estrema gioia, la sera poteva scorgere la luce della lampada che ardeva davanti al Santissimo Sacramento e sentirsi in tal modo più vicina a Gesù, e lì stava molto tempo in adorazione. Quell’angolo divenne il luogo prediletto della casa e «là adoravo il mio Gesù SS.mo, Quante grazie, quanti lumi mi donava. Le ore passavano come minuti»[10].

Fu assai pesante il periodo vissuto in casa Biffi: anelava alla vita monastica e invece si trovava catapultata in un mondo che non le apparteneva affatto. Alla vita di paese, inquadrata fra la casa paterna e la parrocchia, si opponeva la vita di città, in quella porzione urbana di alto livello che richiedeva eleganza e savoir-faire. Fu, come lei stessa confessa nel Diario Spirituale, un vero e proprio martirio pettinarsi e vestirsi come era socialmente utile, così come frequentare i ricevimenti, fare viaggi… L’insegnante di francese, che le parlava delle cose del mondo, non fece altro che acuire il suo malessere… e Laura si ammalò veramente. I medici dissero che lo studio le faceva male e i signori Biffi sospesero le lezioni. Inoltre suggerirono al cavalier Biffi di farla distrarre, di proibirle di pregare, di meditare e di andare con troppa frequenza in chiesa. Laura era triste, non digeriva più nulla, soffriva d’insonnia e dimagriva… Piangeva e pregava e avrebbe voluto gettare dalla finestra vesti e monili d’oro. La frustrazione era immensa: lontana dalla vita che desiderava sopra ogni cosa, immersa in un luogo molto distante dalla sua sensibilità e semplicità, Laura trovava conforto soltanto in Gesù che alleviava il suo patire: «Avevo 16 anni e Gesù fece sentire in modo sensibile la sua padronanza di me. Più del passato lo sentivo vicino, mi era sempre presente. Non mi era possibile fare il minimo atto se non per Lui. Volle che ad ogni azione fosse legata una sua speciale intenzione.

Quanta bontà!… Quanto amore mi dimostrava… Io con gli occhi del corpo non vedevo niente, eppure lo vedevo, lo sentivo in un modo chiaro, sempre a me vicino… sentivo la sua dolcissima Voce… Se appena pronunciavo una parola inutile o facevo qualche cosa non bene, Egli subito mi correggeva con tanta bontà che m’inteneriva.

Questa grande grazia, devo dirlo, a lode e gloria del mio caro Gesù, (sebbene non abbia corrisposto) continuò a farmela fino al presente che ho già cinquant’anni.

Che conto dovrò rendere al Signore!

Allora non mi fu più possibile gustar altro che le cose che riguardavano Gesù. Obbligata a vestirmi e pettinarmi alla moda per obbedienza, andare a qualche onesto divertimento, far viaggi, come già dissi, era un martirio per me… Quanto soffrivo! Gesù dolcissimo non mi lasciava quieta, non era contento… Continuamente mi diceva che voleva da me una vita totalmente mortificata, umile, raccolta, da vera religiosa nel mondo.»[11].

Gradatamente dopo questo sofferto travaglio spirituale, Laura trovò gli aiuti necessari per vivere più quietamente la sua permanenza a Milano, a contatto con un mondo tanto diverso dalle sue aspirazioni.


[1] Dio solo, fascino segreto di un cuore amato – Note Spirituali di Madre Laura Baraggia,  pag. 122

[2] Guido Zagheni, L’età contemporanea – corso di storia della Chiesa IV, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, p. 198

[3] Diario Spirituale, pag. 43

[4] Ibidem

[5] Ibidem, pag. 44

[6] Ibidem, pag. 89

[7] Diario Spirituale, pag. 50

[8] Ibidem, pag. 101-102

[9] Positio, op. cit., pag 67

[10] Diario Spirituale, pag. 77

[11] Ibidem, pag 69-70